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Nell’estate del 2008, a Venezia, ebbi una
conversazione notturna con Morando Mo-
randini. Reduci entrambi dalla proiezione
fiume di tutti i cortometraggi di Ermanno
Olmi con cui la Biennale rendeva omaggio
al grande regista bergamasco, ci incontram-
mo sull’autobus che dal Palazzo del Cine-
ma conduce all’imbarcadero.
Fui naturalmente io ad avvicinarmi e a pre-
sentarmi.
Ci scambiammo le impressioni e discutem-
mo brevemente della formidabile carriera
di Olmi, coronata dei più prestigiosi premi
internazionali; poi, con poche e semplici
parole, l’allora ottantaquattrenne critico
cinematografico mise in crisi la mia co-
scienza di spettatore dandomi al contempo
una lezione di cinema: “Ha visto come la-
voravano? E senza guanti!”. Inchiodato alla
poltrona per oltre due ore, ero stato incapa-
ce di riconoscere il
leit-motiv
che legava
quelle immagini: uomini impegnati nelle
più disparate attività lavorative, ma tutti
invariabilmente a mani nude.
Colsi così un aspetto centrale di tutta la
poetica olmiana, latente in me fino ad un
attimo prima e rivelatosi brutalmente nei
sobbalzi d’una corriera: l’elemento umano
come valore cui è impossibile prescindere.
Qualche tempo fa, come un’intermittenza
proustiana, quest’episodio mi è tornato alla
memoria.
Ho ripreso in mano la filmografia di Olmi e
mi sono divertito a “spuntare” i titoli visti
(mi sono sorpreso a ricordare anche
l’occasione, i cinema e le persone che era-
no con me: a riprova che l’opera d’arte,
quella autentica, è legata a filo doppio con
l’esperienza quotidiana); tra questi ho nel
cuore “L’albero degli zoccoli” (1978), “Il
mestiere delle armi” (2001) e
“Centochiodi” (2007) perché mi capita
spesso di ripeterne a memoria alcuni dialo-
ghi.
Per la verità mi capita spesso anche di ri-
correre al pensiero di Olmi, e di trovarvi
ristoro, nei numerosi momenti di incertezza
e di difficoltà cui questi anni scellerati ci
sottopongono sempre più frequentemente.
Il rifiuto di tutti i dogmi, da quello politico
a quello religioso; la salvaguardia della
propria libertà intellettuale; il dubbio come
momento di crescita dell’individuo nel suo
agire: questi i principi che Olmi ha insegui-
to nella vita e trasferito nelle sue opere, con
risultati alterni, fin dagli esordi.
Eppure ancora oggi c’è una critica che si
ostina a definirlo “cattolico”, incastonando-
lo così in quella categoria, proprio lui che è
una delle personalità più avverse agli sche-
mi, ai gruppi e, in definitiva, alle categorie,
che la seconda metà del Novecento ha co-
nosciuto. “Aspirante cristiano”, ribatte Ol-
mi.
E questa risposta dà la misura del persona-
lissimo percorso, anche spirituale, del regi-
sta oggi ottantunenne.
Nel 1959, dopo aver realizzato alcuni brevi
film a soggetto e documentari industriali,
per i quali si avvale anche della collabora-
zione di Pier Paolo Pasolini (“Manon fine-
stra 2”, 1956 e “Grigio”, 1958) e Goffredo
Parise (“Michelino 1°B, 1956), presenta il
suo primo lungometraggio, “Il tempo si è
Cinema
Ermanno Olmi
di
Davide Borghini
(Segue dalla prima pagina)
gine tutte le cose umane, i bambini e la
bellezza e le cose ben fatte: tutte le vere
creazioni dell’umanità.[…] l’unità del
fiume di sangue dell’uomo e della donna
nel matrimonio completa l’universo, per
quanto riguarda l’uomo, completa la fiu-
mana del sole e il fluire delle stelle”.
La donna è portatrice di questo equilibrio,
regge l’universo nelle sue mani, crea ar-
monia e pacifica i contrasti. L’uomo non
può che accogliere in sé quanto ricevuto,
l’uomo-poeta utilizza come strumento
questa forza e la trasforma in Arte.
Mana del mare
Lo vedi il mare? Va in mille pezzi
contro le isole, eppure rimane se
stesso, intatto, il grande mare uguale.
Ho tratto io dal mare la
marea nelle mie braccia
che corre giù stringendosi verso i polsi,
e poi
dilaga nelle mie mani, come onde
tra la sostanza delle rocce?
Corrono giù i marosi
nelle mie gambe, arrivano
agli isolotti sommersi delle ginocchia
con il loro potere, potere del mare,
potere del mare, e
si rompono contro la terra nei levigati,
ripetuti frangenti
dei miei due piedi?
Ed il mio corpo oceano, oceano il cui
potere corre sino alle rive lungo le
mie braccia
e si rompe in mani di schiuma, il cui
potere
arriva sino al bianco incedere d’onda di
due piedi di sale?
Sono il mare, io sono il mare!
David Herbert Lawrence, disegno di Giuliano Dio-
fili. Da “Parole sulla punta dei capelli”, Atti del
Laboratorio di Poesia Arthena, 2004-2010, ed.
Giovane Holden 2009.
fermato”, storia di un incontro-scontro ge-
nerazionale girato interamente su una diga
del Monte Adamello.
Federico Fellini, dopo aver visto il film, gli
disse: “Da questo momento siamo fratelli”.
Con “Il posto” (1961), amaro documento
antropologico dell’epoca del
boom
, la car-
riera di Olmi è ormai avviata.
Si susseguono i riconoscimenti dei Festi-
val, tra cui una Palma d’Oro a Cannes nel
’78 per “L’albero degli zoccoli” e un Leo-
ne d’Oro a Venezia nel 1988 per “La leg-
genda del santo bevitore”, dell’attenzione
internazionale e, in misura minore, del pub-
blico.
Ma, come disse, Tullio Kezich che di Olmi
fu amico e collaboratore, “non si è abbattu-
to quando nessuno parlava di lui, non è
montato a cavallo nel momento del succes-
so”.
In questi cinquant’anni alterna
film
di ri-
chiamo a titoli più estremi, non disdegna
l’attività televisiva e si occupa saltuaria-
mente anche di teatro.
Il 1984 è un anno spartiacque: una rara ma-
lattia lo colpisce all’inizio dell’estate co-
stringendolo ad un lungo periodo di inatti-
vità.
Ha inizio così il periodo della maturità, in
cui lo sguardo del regista si fa ancora più
attento e partecipe della realtà che lo cir-
conda (“ascolto la realtà che mi parla”)
senza perdere la consueta semplicità.
In questo senso è forse possibile accostare
Olmi ad una personalità lontana da lui, al-
meno fisicamente, un giro del mondo: il
regista giapponese Hayao Miyazaki, con il
quale condivide senz’altro una particolare
sensibilità verso temi forti come lo sfrutta-
mento del territorio e l’imbarbarimento dei
costumi.
“Il mestiere delle armi” (2001) ripercorre
gli ultimi giorni di vita di Giovanni dalle
Bande Nere (1498-1526) e si presenta co-
me opera di denuncia della guerra in tutte
le sue declinazioni: “Quand’è che l’uomo
capirà la necessità di non prevalere sugli
altri attraverso la forza fisica, la ricchezza e
q u a n t ’ a l t r o p o s s a mo r t i f i c a r e
l’interlocutore, e si accorgerà che la vera
vittoria è trovare le condizioni del dialogo,
sempre, in ogni circostanza?”.
Nel 2007 Olmi dichiara pubblicamente di
volersi ritirare dal cinema di finzione per
dedicarsi esclusivamente al documentario.
Lo fa mandando nelle sale “Centochiodi”
dove Raz Degan (scelta non scontata, come
Rutger Hauer per “La leggenda del santo
bevitore” e Bud Spencer per “Cantando
dietro i paraventi”, 2003), professore uni-
versitario colto dal dubbio, dopo aver in-
chiodato uno a uno i volumi di una vasta
biblioteca, molla tutto e si trasferisce in
riva al Po vicino a un ritrovo di pensionati.
Per spiegare la grandezza di quest’opera - e
di tutta l’opera di Olmi - bastino la didasca-
lia con cui il film si apre “Ma pur necessa-
ri, i libri non parlano da soli”, e la battuta-
chiave del protagonista “Tutti i libri del
mondo non valgono un caffè con un ami-
co”.
L’urgenza di intervenire nel dibattito con-
temporaneo costringe il regista a tornare
sui suoi passi.
A fine 2010 è annunciata la lavorazione de
“Il villaggio di cartone”,
film
-apologo che
si conclude con un severo monito: “O cam-
biamo il corso della Storia, o sarà la Storia
a cambiare noi”.
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